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Il valore della cima "più alta"
di Augusto Allegri

La salita alla vetta del Monte Bianco per la via normale dal versante francese è una lunga escursione che non necessita di grandi qualità: basta avere un buon allenamento, un fisico integro e non allergico alle altitudini, un minimo di esperienza di ambiente neve/ghiaccio e la cosa è fatta. L'esempio più lampante di quanto sopradetto è dato dal fatto che alla fine di questa ultima estate del ventesimo secolo, c'è riuscito il sottoscritto, di anni sessanta e spiccioli, con poca esperienza ed un attestato di Corso di primo livello.


Sulla cima del Monte Bianco.
Settembre 1999 (foto Massimo Borsini)


Fatta questa premessa, diciamo un po' riduttiva, devo subito dire che si è trattato di un emozione talmente crescente e irripetibile e diversa che mi resta difficile esprimere, anzi avevo già rinunciato a farlo per iscritto, fino a quando non ho letto sui quotidiani un fatto di cronaca alpinistica (tragica) che ha indirettamente avvalorato la valenza della mia esperienza emotiva.

Il giorno 26 ottobre '99 è apparsa sui giornali la notizia della morte (avvenuta una settimana prima) di una nota alpinista inglese, tale Ginette Harrison, che da una vita andava ad intraprendere imprese alpinistiche ad alto tasso di rischio. Il marito, spesso compagno di avventure, ha assistito alla tragedia, avvenuta sull'Himalaya. 

Fino a quì ripeto, una normale storia che fa parte del gioco della vita, specialmente quando si gioca a certi livelli di sfida. Il marito si è limitato a dire: "abbiamo perso Ginette".

Questa freddezza (forse apparente) fa capire comunque quanto questa gente sia fatalmente pronta al peggio, come se fosse scontato che prima o poi il peggio verrà. 
Questa donna aveva fatto cose egregie di ogni genere per i monti di ogni angolo della terra.
Ma la cosa a cui teneva maggiormente era la cosiddetta gara dei "Sette Continenti", che consisteva nel salire le cime più alte di ogni regione del mondo: poi semmai si va a cercare le cose più difficili ed impervie, ma prima bisogna salire su quei monti il cui nome è riportato dai libri di geografia come il più alto di una certa regione; cosicché tutti ci creiamo un fascino ed una memoria della cima più alta.

Per questa ragione ho sempre avuto questo desiderio forte di arrivare sul tetto di un certo Territorio, là dove le mie forze me lo facevano sperare.
L'aspirazione era ed è legittima e non vale solo per l'Everest.

Si racconta che Ginette scrisse questi appunti: "voglio andare in Oriente e scalare l'Everest, voglio andare in Nord America e scalare il Mc. Kinley, voglio andare in Sud America e scalare l'Aconcagua, il Kilimangiaro in Africa, il Mount Vinson in Antartico... voglio andare in Europa, sulle Alpi, a scalare il Monte Bianco".

Dunque la gioia grande è legittima per noi comuni appassionati come per grandi, come per Ginette: sullo stesso monte, nello stesso luogo. 

C'è un altro aspetto dell'esperienza del Bianco che vorrei ricordare, anche per avvalorare il diritto a gioirne più di sempre: quando si superano i 4000 metri, verso la capanna Vallot, si capisce molto chiaramente che stiamo per entrare in un ambiente che non è più quello dell'uomo, o comunque che ce ne stiamo discostando, si capisce che stiamo andando là dove un minimo inconveniente può essere fatale, che il cambiamento di condizioni meteo può metterti in serie difficoltà; poi c'è il rischio psicologico o di coscienza/incoscienza; che cosa vuol dire? Vuol dire che se mi avessero detto, a trecento metri dalla cima, di tornare addietro per prudenza previo grave rischio, io sarei andato avanti, o comunque sarebbe stata dura portarmi indietro... per il mio capocordata.

A proposito: il capo è stato ancora lui, il Borsini. Grazie ancora Massimo: però questa volta, sul Bianco, peccato davvero che non ci fossero stati tutti i nostri amici comuni.
L'anno prossimo faremo tutti assieme la via italiana.

Che ne dite? Ginette Harrison ci verrebbe senza annoiarsi perché troppo facile.




 
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Autore Fabio Montagnani
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Ultimo aggiornamento il 1 Giugno 2017
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