
Quello 
del Pozzo della Cava rappresenta un caso unico nel panorama dei beni culturali 
italiani: un monumento nazionale riportato alla luce e gestito direttamente dalla 
famiglia che ne è proprietaria. Proprio così, le nove grotte ipogee del Pozzo 
della Cava, nel cuore del quartiere medievale di Orvieto, sono state recuperate 
e rese visitabili, nel corso degli ultimi venti anni, senza che nessun contributo 
pubblico sia mai stato erogato, né per i lunghi e laboriosi lavori di recupero 
degli ambienti e dei numerosi ritrovamenti che ospitano, né per la loro promozione 
e manutenzione. 
La singolarità dell'intera struttura è quella di accogliere 
al suo interno un grande numero di ritrovamenti archeologici etruschi, medievali 
e rinascimentali gli uni accanto agli altri, quasi stipati nelle grotte che costruiscono 
il percorso di visita al pozzo, con secoli di storia accavallati in un susseguirsi 
di usi e riusi degli stessi ambienti.
E spesso le nuove scoperte, avvenute 
nel corso degli ultimi venti anni hanno aggiunto altre pagine alla storia della 
città e rimesso in discussione tesi consolidate.
Nel dicembre del 1984, infatti, 
è stato riscoperto il Pozzo della Cava, forse il ritrovamento più imponente dell'intero 
complesso, con i suoi 36 metri di profondità e gli oltre quattro di diametro, 
scavato seguendo la traccia di un pozzetto etrusco ancora visibile. Fu questo 
il primo pozzo realizzato ad Orvieto su commissione di Papa Clemente VII (rifugiatosi 
in città dal sacco di Roma nel 1527) e non quello di San Patrizio, come si era 
creduto fino al 1999, quando un noto ricercatore orvietano, confrontando date, 
editti e scritti di Antonio da Sangallo il Giovane, ha risolto l'equivoco.
Non 
meno singolare la vicenda legata alle due fornaci di ceramica rinvenute al pianterreno 
delle grotte del Pozzo della Cava, che hanno potuto dimostrare una produzione 
di maiolica anche nel XV e nel XVI secolo, ritenuti fino ad allora i periodi bui 
della ceramica orvietana, ed hanno iscritto Orvieto tra i pochissimi centri di 
produzione dei preziosi "lustri" cinquecenteschi, famosi per l'iridescenza dei 
loro colori. E così, continuando a scendere nei sotterranei, tra pozzi-butti medievali 
e qualche cunicolo, tra una cisterna etrusca trasformata in cantina e i resti 
di una casa-torre duecentesca, si arriva alle ultime grotte del percorso, aperte 
al pubblico nell'ottobre 2003, dopo più di un anno di lavori. 
A colpire, oltre 
all'imponenza di queste "nuove" stanze, la più grande delle quali raggiunge i 
14 metri di altezza, è lo straordinario valore dei resti rinvenuti: nonostante 
una infinita serie di riutilizzazioni e trasformazioni, infatti, sono ben identificabili 
alcune nicchie per urne cinerarie, praticamente identiche a quelle presenti nelle 
tombe più antiche di Norchia, nel Lazio. L'eccezionalità di una tale scoperta 
sta nel fatto che fino a qualche anno fa non erano mai state rinvenute, in tutto 
il territorio, sepolture risalenti al primo periodo di permanenza degli Etruschi 
ad Orvieto. 
L'ultima sorpresa, in ordine di tempo, risale al 2004, in occasione 
dei lavori per il ripristino del grande arco su Via della Cava che nel Rinascimento 
costituiva l'unico accesso al pozzo. A ricordare ai cittadini sia la presenza 
del pozzo che la sua chiusura, avvenuta cono ogni probabilità in seguito alla 
Guerra di Castro, era stata apposta dalle autorità comunali una lapide nel 1646. 
Proprio rimovendo quella pietra si è potuto scoprire che l'iscrizione era stata 
scolpita sul retro di una spessa lastra di marmo con bellissimi bassorilievi altomedievali, 
prelevata dai sotterranei della vicina collegiata dei Santi Andrea e Bartolomeo.